lunedì 25 gennaio 2016

Una vacanza al tempo del primo internetto

Mettetevi comodi, non sarò breve. Sempre che vi interessi leggere la storia di uno dei viaggi più assurdi e contemporaneamente più indimenticabili della mia vita.
Qualche settimana fa ho terminato di leggere un libro che mi aveva incuriosito molto: “Norman X e Monique Z: la storia segreta di un amore nato nel ciberspazio”.
Evidentemente la mia curiosità nasceva dall’assoluto parallelismo con la mia storia d’amore nata nel ciberspazio, ma proseguendo nella lettura, oltre ad una crescente delusione rispetto alla qualità del libro, ho riscontrato molte più analogie con ciò che mi era successo un anno prima, anche se era un po’ diverso. Va beh… faccio prima a raccontare che a spiegare.
Correva l’anno 1995, e muovevo i primissimi passi on line, utilizzando quella cosa ancora riservata a pochi chiamata Internet. Un modem 14.4, la necessità di scaricarsi la posta (Eudora, qualcuno ha detto Eudora?), disconnettersi, rispondere e poi riconnettersi per mandare la risposta per evitare bollette salate (si pagava a scatti, quindi a consumo) e contemporaneamente per non occupare la linea telefonica per delle ore.
Non ricordo esattamente attraverso quale dei millemila newsgroup che seguivo conobbi Megan, ma ben presto iniziammo a scriverci al di fuori del gruppo, in privato. Parlavamo di noi, delle nostre città, delle nostre vite, di politica, poco di musica (ma riuscii a convincerla ad ascoltare Nick Drake), non di sport. Mi raccontava della sorella che aveva sposato un coglionazzo ed era andata ad abitare ad Albuquerque, 350 km più a nord di Las Cruces, New Mexico, dove abitava lei, oppure di come avesse deciso di andare a vivere da sola, del suo impiego all’università, delle sue aspirazioni, del suo desiderio di vedere l’Europa, forte tanto quanto il mio desiderio di vedere una parte degli Stati Uniti che fino a quel momento non avevo nemmeno mai preso in considerazione.
Alla fine combinammo di incontrarci da lei a Las Cruces. Avendo appena comprato casa ed acceso un mutuo che mi ammazzava finanziariamente, non potevo certo permettermi  una vacanza negli Stati Uniti, ma il fatto di essere ospitato in casa sua riduceva i costi di un bel po’, quindi decisi di partire, anche se ero quasi certo che al mio ritorno il mio conto corrente sarebbe andato drammaticamente in rosso una volta pagata la rata del mutuo. Non potevo nemmeno più invocare la mia giovane età, dal momento che avevo già superato i trenta, ma chi avrebbe portato un certo equilibrio nella mia vita sarebbe arrivata solamente l’anno successivo, per cui ero ancora a tutti gli effetti un “fulatùn”, come si dice dalle mie parti.
Qui iniziano le differenze con il libro. Nei mesi precedenti al nostro incontro non ci scambiammo lettere piene di passione, dove dicevamo una all’altra cosa ci saremmo fatti una volta insieme. La nostra, almeno da parte mia, e solo mia come scoprii poi in seguito, era semplice curiosità di conoscere una persona in carne ed ossa dopo essersi scritti per più di un anno ma soprattutto era un’occasione per fare 15 giorni di vacanza in posti meravigliosi riducendo le spese al minimo.
Alla fine giunse la data fatidica, anche se per conoscere Megan avrei dovuto aspettare ancora qualche giorno. La prima tappa della mia vacanza consisteva infatti nell’andare a trovare Marco, un amico che, dopo aver studiato a Nevada-Reno, si era stabilito a San Francisco dove faceva lo schiavo per non so quale azienda.
All’epoca le prenotazioni on line non erano ancora di moda, per cui dovetti andare in un’agenzia di viaggi a prenotare un biglietto aereo piuttosto complesso: volo Delta Milano – New York JFK, poi coincidenza United Airlines New York – San Francisco con stop over a Phoenix al ritorno ed infine volo Southwest Phoenix – El Paso. Il volo Southwest l’avevo trovato su internet, ma non potevo prenotarlo dall’Italia se non tramite agenzia, e ricordo che fu davvero dura far capire all’impiegato dell’agenzia che il volo esisteva davvero e si poteva prenotare. Alla fine uscii dall’agenzia con il biglietto in mano, ma che fatica!!!
Non lo sapevo ancora, ma quello sarebbe stata il primo di una innumerevole serie di eventi che avrebbero potuto mandare tutto all’aria.
Per continuare l’analogia con il libro, passammo l’ultimo mese ad immaginare come riconoscersi l’uno con l’altra, non essendoci spediti delle foto per espresso volere di entrambi. Alla fine ci accordammo per un sistema apparentemente semplice: io avrei atteso che tutti fossero usciti dall’aereo e sarei rimasto per ultimo, così sarebbe stato più facile anche per me riconoscere lei, che in teoria avrebbe dovuto essere l’ultima persona in attesa al gate.
Venerdì 5 luglio 1996 mi imbarcai a Malpensa, e diverse ore dopo venni accolto da Marco a San Francisco, dove passammo un bellissimo weekend comprensivo di puntata sulla costa fino a Monterey e Carmel, giro notturno di Sausalito e… cena in un luridissimo “Jack in the Box” in Post Street, dove Marco mi fece immediatamente  capire come tra l'essere un turista ed il vivere davvero a San Francisco (ma anche altrove) con uno stipendio che ti basta appena per l’affitto del monolocale dove vivi, ci fosse una differenza abissale.
Ad ogni buon conto, lunedì 8 luglio mi imbarco sul volo per Phoenix dove arrivo intorno alle dieci di mattina, e da lì vado a fare il mio bel check-in alla Southwest per El-Paso anche se il volo sarebbe partito solo nel tardo pomeriggio. L’addetta al check-in guarda e riguarda il biglietto, fa settemila telefonate e poi mi dice che il biglietto non è valido.
- E quindi?
- Quindi ne deve fare un altro, ma il volo è pieno.
- Si, il volo è pieno, ma se il mio biglietto non è valido si libera un posto, no?
- Teoricamente si, ma devo metterla in lista d’attesa.
- OK, e quante persone ci sono in questa lista?
- Nessuna, lei è il primo.
- E quindi posso prendere un altro biglietto.
- Non prima che si chiuda il check in e si sia verificata al lista d’attesa.
Mi rassegno a dover aspettare fino a mezz’ora prima della partenza e mi piazzo davanti al bancone del check-in, al quale si alternano diverse signorine nell’arco del pomeriggio.
Con precisione svizzera, mezz’ora prima della partenza, il check in chiude e viene chiamata la lista d’attesa, composta da un solo nominativo: il mio. La gentile signorina che mi fa il check in (diversa da quella del mattino, ovviamente) fa tutte le pratiche, mi consegna la carta di imbarco e mi augura buon viaggio, non prima di aver rimarcato come sia stato molto fortunato a trovare un posto libero su un volo completo.
Il bello, però, doveva ancora venire.
L’atterraggio ad El Paso lo ricordo come uno dei più belli che abbia mai effettuato per il panorama esterno. Pur essendo ormai praticamente buio, la luce del tramonto colorava tutto di un viola chiaro che rendeva il paesaggio davvero suggestivo. Come concordato, lascio scendere tutti dall’aereo e mi avvio al portellone per ultimo. Esco dal gate e lì, ad attendermi… non c’è nessuno.
Mentre mi guardo intorno spaesato sento l’altoparlante gracchiare un confuso “asmoisdter lòsòkapoujk ojalsdpruen Mr. Massimo Foglio haftdstreo mdkas kahduieyuiaj”. Cerco di capire cosa ha detto, ma oltre al mio nome non capisco una fava.
Decido di dirigermi al recupero del bagaglio, e nel mentre sento nuovamente l’altoparlante che mi chiama. A questo punto vado da un poliziotto che era nei paraggi e gli chiedo cosa diavolo stesse dicendo l’altoparlante. Il poliziotto, senza fare una piega, mi indica un telefono attaccato alla parete e mi dice che devo comporre un numero e chiedere lì.
Compongo il numero e, al millesimo squillo, risponde una voce annoiatissima che mi dice che sì, abbiamo chiamato il suo nome e deve venire al banco informazioni.
Per andare al banco informazioni devo necessariamente prima ritirare il bagaglio che, all’aeroporto di El Paso (dubito che sia ancora così, oggi) significa andare in una parte della hall di ingresso dove alcuni cordoni delimitano un’area dove sono ammassati alla rinfusa i bagagli di tutti i voli in arrivo, guardati a vista da un paio di guardie con il fucile in mano che controllano la folla tutta intorno, formata in minima parte dalle persone che devono ritirare il bagaglio ed in gran parte da biffe di dubbia affidabilità. Incoraggiante.
Fortunatamente il mio borsone rosa fucsia si distingue benissimo tra gli altri (è una tecnica che ho usato per anni il viaggiare con questo borsone fucsia che dà talmente nell’occhio che scoraggia chiunque dal rubarlo e, nel contempo, ti permette di individuarlo immediatamente sui nastri trasportatori degli aeroporti o, come in questo caso, negli ammassi di bagagli lasciati lì alla rinfusa).
Recuperato il bagaglio, vado al banco informazioni, dove l’annoiatissima impiegata proprietaria dell’annoiatissima voce di cui prima mi dice che sì, c’era una persona che mi aspettava, ma visto che non arrivavo se n’è tornata a casa.
Ottimo. Sono da solo, in un posto sconosciuto, con in tasca una biglietto aereo di ritorno per undici giorni dopo ed una quantità di denaro sufficiente a mangiare o a dormire per quegli undici giorni. Mangiare o dormire. Non entrambe le cose.
Nell’atrio dell’aeroporto c’è un grande pannello con un telefono ed una serie di elenchi di alberghi, ristoranti, motel ed alloggiamenti vari. Scelgo l’holiday inn dell’aeroporto, telefono e mi dicono che mi possono dare una stanza per 100 dollari. Che devo fare? Accetto. Il giorno successivo mi sarei inventato qualcosa, anche perché a quelle cifre non avrei certamente dormito undici giorni.
Arrivato in albergo realizzo il vero problema di tutta questa storia. Oltre all’indirizzo di posta elettronica, non ho un recapito di Megan, né un indirizzo né tantomeno un numero di telefono, per cui non ho alcuna idea di come trovarla.
Provo a chiedere alla reception se hanno una guida telefonica di Las Cruces, ma niente da fare, hanno le guide di tutto il Texas, ma non quelle del New Mexico. Non so dove sbattere la testa, ed inizio a pensare a come far passare questi undici giorni con le poche finanze che mi ritrovo, ma ad un certo punto ho una illuminazione. Quando sono atterrato a New York, il doganiere ha voluto sapere l’indirizzo esatto di dove sarei andato a stare, e gli avevo dato quello di Marco a San Francisco. Torno alla reception per chiedere se c’è un modo di risalire ad un numero di telefono di San Francisco avendo l’indirizzo, e mi danno un numero da chiamare. Torno in camera, faccio il numero e… voilà: ho il numero di telefono di Marco.
E’ ormai mezzanotte passata, ma per il fuso da Marco sono ancora le 11, per cui lo chiamo senza paura di svegliarlo. Gli spiego la situazione e gli dico di mandare una e-mail a Megan, di cui conosco solamente l’indirizzo di posta elettronica, dicendogli dove trovarmi.
Ero sicuro che Megan avrebbe letto la posta la mattina dopo prima di andare a lavorare, ma non passano dieci minuti da quando ho chiamato Marco, che squilla il telefono: è Megan.
Mi spiega che era appena tornata a casa e mi stava mandando una lettera piena di insulti per non essermi presentato all’aeroporto, ma quando aveva attivato la connessione per spedirmela aveva ricevuto il messaggio di Marco.
Era successo che la sicurezza dell’aeroporto non l’aveva lasciata passare per venirmi ad aspettare al gate perché nella borsa aveva un coltello a serramanico (non commento, tutto si spiegherà nei giorni successivi…) e non voleva lasciarlo ai controlli, per cui mi aveva fatto chiamare per farmi andare al banco informazioni, ma visto che non arrivavo se n’era tornata a casa. Darmi il tempo di arrivare, rendermi conto di dove fossi e di cosa volesse da me quel dannatissimo altoparlante, lasciarmi il tempo di ritirare il bagaglio? Nah… tempo perso. Non sono arrivato entro 15 minuti dall’atterraggio per cui non potevo che averla bidonata. Va beh…
Insomma, al mattino dopo, dopo aver fatto una lauta colazione (compresa nei 100 dollari) ed il check out, sono comodamente sprofondato in una poltrona della hall a leggere la sezione sportiva di USA Today quando arriva una ragazza bionda, sudata all’inverosimile, con mezzo trucco squagliato per il sudore (fa un caldo insopportabile là fuori senza aria condizionata), un vestitino bianco e blu in poliestere 100%, che mi guarda e mi fa “Welcome to my country!”.
Dopo i convenevoli di rito usciamo dall’albergo e mi fa salire sul suo Volkswagen T2 verde con il tettuccio bianco, molto stile hippy (questo per intenderci), ed ha finalmente inizio la vacanza.
Come ho detto all’inizio, ho un ricordo al tempo stesso piacevole e spiacevole di questi undici giorni. La vacanza in sé è stata splendida. Ho visto posti magnifici come il White Sands National Monument, particolari come il Very Large Array di Magdalena (dove per fotografare una veduta delle parabole sono salito su una collinetta piena di buchi, che ho scoperto poi essere entrate di una grossa tana di crotali. Sono sceso da quella collinetta polverizzando qualsiasi record Bolt dovesse ancora solo pensare di poter stabilire sui 100 metri!), caratteristici come la Ferrovia ad alta quota Cumbres and Toltec, storici come Old Mesilla dove venne processato Billy The Kid e moltissime altre cose. Ho iniziato ad apprezzare la cucina messicana, dopo aver lacrimato a bestia per tre giorni prima di assuefarmi al chili, ed in linea di massima ho apprezzato ogni singolo istante passato in quella terra.
Il retro della medaglia è costituito dalla compagnia. Per me era chiaro fin dall’inizio, ed a posteriori ricordo di aver riletto tutti i messaggi che ci eravamo scambiati per capire dove avessi sbagliato, che non ci sarebbero state implicazioni sentimentali o sessuali nella mia visita e nel nostro incontro. Non così per lei, purtroppo.
Non so bene che film si fosse fatta, ma si era convinta che la mia visita preludesse ad un mio trasferimento definitivo con lei, per cui tutto si svolse come se “tanto ci rivediamo tra poche settimane quando verrai a vivere qui”. Particolari insignificanti come il permesso di soggiorno oppure il lavoro erano sempre messi in secondo piano. Lei stessa non aveva un lavoro stabile, e quello che svolgeva all’università non era pagato abbastanza per poter sopravvivere da sola, tanto che i genitori erano un imprescindibile aiuto economico.
Non scendo nei particolari perché davvero poco interessanti, ma l’aria era davvero pesante, e quando realizzò che le cose stavano diversamente da come aveva pensato, fui seriamente preoccupato che potesse mettere in atto qualcosa di insensato per farmi rimanere a forza.
Ci fu anche una vera e propria “presentazione in famiglia” che scadette davvero nel ridicolo quando, ospiti a cena dai suoi genitori, venni accolto da un piatto fumante di pasta “cucinata all’italiana in tuo onore”.
E come si cucina la pasta all’italiana? Semplice: si riempie una pentola d’acqua, ci si mette la pasta dentro, la si porta ad ebollizione e poi COME SCRITTO SULLA CONFEZIONE la si fa bollire per quindici minuti.
Potete immaginare cosa c’era nel piatto? Ecco, si, proprio quello…
La sera prima di ripartire ci fermiamo a El Paso, in un Motel Eight, perché l’aereo per Phoenix era alle nove del mattino, e da Las Cruces c’è un’ora e più di strada.
Dopo cena andiamo in un locale per passare la serata ma vengo colto da un attacco di dissenteria fulminante che ci costringe a tornare al motel con le pive nel sacco. E’ arrabbiatissima perché pensa sia una scusa, mentre invece sto malissimissimo, tanto che poi sto in bagno almeno un’ora. Uscito dalla “seduta spiritica” me la ritrovo sul letto che piange guardando la CNN che ha appena dato la notizia che il volo New York – Parigi – Roma è esploso in volo sopra Long Island. Ecco, penso, la quadratura del cerchio. Proprio quello che ci vuole prima di intraprendere in viaggio intercontinentale!!!
Dopo aver passato tutta la notte cercando invano di convincermi a restare, mi porta controvoglia all’aeroporto dove mi accompagna all’imbarco (non prima di aver lasciato il coltello in macchina, stavolta!).
L’ultimo tentativo lo piazza subdolamente all’imbarco. Ho ancora degli strascichi intestinali dalla sera prima, per cui vado in bagno, ma visto che l’imbarco è imminente, le dico di chiamarmi se quando imbarcano non sono ancora uscito.
Inutile dire che non mi avverte per nulla, e quando esco la situazione è surreale. Le persone sedute vicino al gate sono cambiate tutte quante, ed il cartello sopra il bancone non indica più Phoenix ma San Diego. Hanno già imbarcato!!!
Mi dirigo al gate con lei che mi tira un braccio, chiedo all’assistente se sono ancora in tempo per salire sull’aereo, questi telefona e mi dice che si, sono in tempo perché stanno aspettando un passeggero ritardatario.
Inutile dire che quel passeggero sono io. Mi stacco con difficoltà dalla sua presa, la saluto e corro verso l’imbarco e, a questo punto, la libertà.
Ragazzi che fatica…
C'è ancora tempo per stare fermo sull'aereo a New York per quasi due ore per un guasto tecnico, ma a questo punto si tratta di una bazzeccola.
Questo è quello che successe a me.
Norma e Monique (quelli del libro) passarono il tempo a trombare come ricci, poi ognuno per la propria strada ed amici come prima.
Quasi quasi sarebbe stato meglio fosse stato così anche per me.

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